L’azienda per il diritto allo studio in Toscana si fa vanto di essere una punta di diamante all’interno del panorama nazionale relativo a questa sostanziosa fetta di welfare. Il famoso dato che ci viene continuamente riproposto come un mantra da comunicati ufficiali, dirigenti dell’azienda e spot pubblicitari è che il diritto allo studio in toscana ha la peculiarità di riuscire a coprire ancora tutte le richieste di borse di studio che vengono inoltrate dagli studenti ogni anno. Tenendo per buono questo dato, è necessario, però, porsi la domanda: Cosa significa davvero avere una borsa di studio in una città come Pisa? Come si declina, più in generale, per tutti gli studenti il diritto allo studio nella nostra università in crisi?
Con la progressiva dismissione dell’università italiana, negli ultimi anni abbiamo assistito allo smantellamento della qualità della didattica e della possibilità di ricerca in ogni singolo dipartimento; di pari passo, la qualità della vita degli studenti e la stessa possibilità di accesso agli studi è stata completamente stravolta e ridefinita. Ci scontriamo quotidianamente un’università sempre più per pochi, dalla quale viene respinto o per lo meno stigmatizzato chiunque non possa permettersi autonomamente tutte le spese necessarie.
Le graduatorie per l’assegnazione dei posti alloggio ai borsisti di quest’anno ci hanno rivelato una drammatica novità: ben 1500 studenti pisani aventi diritto all’alloggio non lo riceveranno; in sostanza, i posti disponibili sono in grado di accogliere solo la metà delle persone che ne hanno bisogno. Eppure non si tratta che della punta dell’iceberg, di un segnale di definitivo collasso di un sistema che subiva già da anni una continua mortificazione: risale al 2012, per esempio la riforma del sistema delle mense universitarie, che introduce la fasciazione del costo dei pasti a seconda del reddito. La mensa è stata così trasformata, di fatto, in un servizio sempre più al ribasso, che non vale più la pena di essere usato da chi ricade nella fascia più costosa e che non è più in dovere di garantire alcun tipo di qualità perchè ad usufruirne solo quasi esclusivamente coloro che, da borsisti, non devono pagarlo. Una mensa per “poveri”, per quelli che non possono e non devono lamentarsi della qualità scadente né rivendicarne una migliore, ma devono, anzi, essere grati per lo straordinario privilegio che viene loro concesso, quella possibilità di sopravvivenza mortificante che viene magnanimamente elargita loro.
Già, essere grati. La gratitudine, in effetti, sembra essere da sempre il sentimento che è previsto caratterizzi gli studenti nei confronti del diritto allo studio e di chi lo elargisce. E su questo punto è necessario fare un passo ulteriore.
Il collasso del Diritto allo studio, abbiamo detto, va di pari passo con la dismissione dell’università. Abbiamo anche sempre detto, però, che qualunque battaglia o movimento che si opponesse alla dismissione del mondo della formazione, e in particolare dell’università, repentinamente avvenuto negli ultimi anni, non potesse mai ed in alcun modo essere una battaglia per la difesa dell’esistente. I movimenti studenteschi si sono opposti alla dismissione di un sistema universitario che, comunque, stava loro già stretto e che da sempre, hanno reputato insufficiente, in tutte le sue forme: non ultimo il Diritto allo studio. Cosa vuol dire, infatti, avere garantito il diritto a studiare in condizioni che mortificano la qualità della propria vita?
Di cosa bisogna sentirsi grati, quando si riceve l’accesso gratuito ad una mensa che chiunque altro considera immangiabile?
Perchè da borsisti, bisogna sentirsi “fortunati” se si ricade, per caso, in quel 50% che otterrà un alloggio garantito, in una casa dello studente situata completamente fuori dal centro urbano e da qualunque flusso sociale, come nel caso dell’avanguardistica Praticelli?
Residenza, questa, che rappresenta uno straordinario emblema della tradizionale inadeguatezza del Diritto allo studio ed, al tempo stesso, un riuscitissimo caso di sperimentazione del nuovo concetto di welfare universitario – non a caso, è il primo esperimento di project financing, ovvero di co-gestione in sinergia tra dsu e privati. Situata fuori dall’abitato pisano, dicevamo, fornisce tutti i servizi necessari a fare in modo che i suoi residenti sentano il meno possibile la necessità di sforzarsi a raggiungere il centro urbano, attentando così pericolosamente, con la loro socialità, al prezioso “decoro” che l’amministrazione comunale, complice l’università, declina ormai da anni nei termini di contrapposizione tra centro storico tirato a lucido ad uso e consumo dei turisti – e degrado apportato dalla “movida” studentesca. Quale migliore soluzione, dunque, che espellere questo corpo estraneo, spingendolo oltre i confini rassicuranti e sorvegliati della città-vetrina? Ai margini, appunto, ci sono case dello studente nascoste alla vista di chiunque non ne sia inquilino, con rigidi sistemi di controllo all’ingresso ed all’interno: non si nasconde l’impiego massiccio di telecamere di “sicurezza”, che spuntano dalle simpatiche pareti colorate a tema. Questo diventa a Pisa una matricola avente diritto ad una borsa di studio: un numero di stanza associato ad un colore, che incontra solo altri numeri di stanza della sua stessa residenza, dalla quale non è necessario uscire mai: nè per usufruire di una mensa di scarsa qualità che è, ovviamente, già presente in loco, nè tantomeno per avventurarsi tra i vicoli del centro oltre gli orari di lezione.
Non meraviglia, tutto sommato, che moltissimi borsisti, magari dopo il primo anno, sperino di non risultare immediatamente assegnatari di posto alloggio, ma, piuttosto, di ricevere per un po’ di mesi un contributo affitto (contributo che per altro viene erogato solo a patto che lo studente sia in condizione di presentare un contratto d’affitto regolare oppure abbia presentato istanza di regolarizzazione all’agenzia delle entrate, ovvero abbia trovato la forza e il modo di denunciare il proprio padrone) che permetta loro di vivere all’altezza dei loro desideri e delle loro necessità, ulteriori a quella della sopravvivenza, sebbene con maggiori difficoltà economiche. Una situazione paradossale, se posta a confronto con l’immagine rosea dipinta dall’Azienda, e una tendenza che parla della volontà di non accettare uno stile di vita normato e imposto dall’alto.
Non si può non sottolineare – vedi l’esempio Praticelli – il ruolo del DSU come attore, nella nostra città, di meccanismi di speculazione edilizia che coinvolge enti pubblici e privati, in una triangolazione che vede agli altri due vertici il Comune e l’Università. L’indirizzo generale dei tre enti è questo: alienare gli immobili pubblici, specie quelli che si trovano al centro della città, in modo da dirigere i flussi dei loro fruitori – gli studenti e i precari – fuori dal centro urbano, il quale viene sempre ridimensionato a misura di turista di lusso, mediante la trasformazione del patrimonio pubblico di cui sopra in alberghi, centri commerciali e attività private di vario tipo.
Pensiamo alla vendita imminente della residenza universitaria Campaldino, in via di dismissione, e delle proprietà del DSU nella centralissima Via Dell’occhio, a favore di aziende private che, con l’acquisto, si accaparreranno anche l’appalto per la costruzione della residenza S.Cataldo.
Una grossa partita di giro si sta giocando, in questi anni, sulla dismissione dell’ospedale Santa Chiara, che ospitava anche la Scuola Medica (ora migrata a Cisanello, con ingenti investimenti economici da parte dell’Università, mediante fondi provenienti sempre dalla vendita di buona parte del patrimonio immobiliare) e che sarà trasformato, da privati, per andare incontro alle esigenze del turismo di lusso attratto dalla vicina Piazza dei Miracoli.
Straordinario il ruolo del Comune di Pisa in queste speculazioni, dalla tristemente famosa “Mattonaia” al suo recentissimo ruolo nella partita sull’albergo comunale “Santa Croce in Fossabanda”: una proprietà che, ristrutturata con fondi comunali, potrebbe essere destinata ad uso abitativo, (per esempio utilizzandola come studentato fino alla fine dei lavori per le nuove residenze) e che invece verrà venduta a Normale e S.Anna che ne faranno una (ulteriore) foresteria per visiting professors. Ciò perché, come ha recentemente ricordato lo stesso sindaco, trasformare S.Croce in Fossabanda in alloggio studentesco provocherebbe una svalutazione dello stabile nel mercato immobiliare.
Allo smantellamento del welfare studentesco e al piano complessivo di alienazione messo in campo da Università, Comune e Azienda per il diritto allo studio non possiamo che contrapporci provando a mettere in campo i nostri corpi e le nostre forze per costruire un nuovo modello di welfare che parta dalle esperienze di riappropriazione e autogestione degli spazi. Le esperienze di occupazione di studentati in Italia e a Pisa incarnano realmente il cosiddetto “diritto alla città”; nella misura in cui non soltanto restituiscono alla città spazi abbandonati o mantenuti volutamente vuoti ai fini della speculaizone edilizia, ma mettono in pratica e realizzano direttamente un modo nuovo e diverso di vivere ed abitare assieme: svincolato da un opprimente obbligo di forzata gratitudine, finalmente all’altezza dei nostri desideri.
Condivido tutto,
tranne il passaggio sul contributo affitto: trovare una casa con un regolare contratto è più complicato, ma è giusto (a parer mio) che il DSU spinga con ogni mezzo gli studenti a farlo, di modo da eliminare la possibile clientela per i padroni di casa che non vogliono fare i contratti. L’obbiettivo non è evitare che uno studente si trasferisca a Pisa in attesa della casa dello studente, ma un piccolo (ed inefficace) contributo ad ostacolare gli affitti in nero. Non credo che il DSU possa fare molto di più per questo.
Caso mai, il problema sta nel fatto che l’assegnazione del posto alloggio (magari dopo anni di attesa) viene comunicata con un preavviso ridicolo (~3 giorni) rispetto al preavviso richiesto per interrompere un contratto di locazione tipico (~3-6 mesi).