Assemblea d’ateneo verso il #15N – occupata residenza studentesca

Questa mattina al Polo Carmignani gli studenti e le studentesse dell’Università di Pisa si sono riuniti in una partecipatissima assemblea d’ateneo. Da subito il dibattito si è concentrato sul tema del redditoassemblea ateneo e sulla necessità di mettere in campo pratiche di riappropriazione sul terreno del welfare, per trovare delle soluzioni dirette e immediate all’emergenza abitativa esplosa in questa città. 1500 studenti senza alloggio, affitti altissimi e ormai insostenibili, a fronte di una speculazione edilizia portata avanti, ormai senza freni, da Comune, Università e Dsu.

L’assemblea ha dunque deciso di muoversi con determinazione in corteo e ha occupato la Casa dello Studente di via Da Buti, una residenza completamente ristrutturata, nuova di zecca, ma ancora chiusa nonostante le tre inaugurazioni organizzate dal Comune che ne è il proprietario. Per non meglio specificati problemi burocratici la residenza attende da un anno e mezzo di essere messa a disposizione degli studenti dopo il passaggio di gestione al DSU.

In via Da Buti stasera alle 21 si terrà un’assemblea cittadina verso il 15 novembre, per costruire una grande giornata di mobilitazione cittadina che ponga il tema di un nuovo modello di welfare, all’altezza dei nostri bisogni e dei nostri desideri.

Di seguito il comunicato dell’occupazione :  1455880_720338667994383_1455025834_n

Dopo la partecipata assemblea di ateneo, gli studenti e le studentesse sono andati in corteo a segnalare un altro immobile pubblico lasciato vuoto e inutilizzato: la residenza studentesca in Via da Buti, più volte inaugurata e mai aperta definitivamente. Anche questa occupazione vuole portare alla luce l’emergenza abitativa presente in città, inserendosi in un percorso rafforzato ieri dall’occupazione di Santa Croce in Fossabanda e che ci vedrà scendere in piazza il 15 novembre con lo scopo di far emergere nel dibattito cittadino sia il problema degli alloggi, sia la necessità che DSU, Comune e Università si confrontino con i bisogni reali dei soggetti sociali studenteschi nell’utilizzo dei beni immobili pubblici.

Le istituzioni di questa città – dal comune, al DSU, all’università – non possono continuare a mettere la testa sotto la sabbia quando oltre 1500 studenti risultano idonei ma non beneficiari di borsa di studio, quando i lavori in nero e sottopagati dilagano e i costi degli affitti salgono alle stelle. Il recente protagonismo e le occupazioni degli ultimi giorni sono un segnale che le istituzioni non possono permettersi di ignorare trincerandosi dietro le rituali formule del rispetto della legalità. Un problema di giustizia sociale deve essere posto. Per questo riteniamo legittimo ridiscutere con le nostre pratiche i limiti della stessa legalità costituita che ogni giorno ci costringe a fare sacrifici ingiusti. Il goffo tentativo di marginalizzare queste esperienze, criminalizzandole e tacciandole di antidemocraticità, non è altro che l’ennesima dimostrazione dell’incapacità delle istituzioni tutte di fornire risposte adeguate alle istanze che da mesi in questa città vengono poste da chi subisce la crisi.

In questi mesi abbiamo saputo costruire risposte legittime, anche oltre gli stretti limiti della “legalità”, per trovare quelle soluzioni che le istituzioni non hanno saputo dare. Anche l’occupazione di Palazzo Feroci a seguito della scorsa assemblea d’ateneo, come quelle recenti, segnala scelte politiche precise operate dal pubblico contro i nostri bisogni. Gli immobili pubblici vengono destinati ai piani d’alienazione o tenuti vuoti invece di essere destinati all’emergenza abitativa studentesca. Inoltre da Palazzo Feroci con l’apertura dello studentato autogestito Spot siamo stati in grado di fornire una prima alternativa per le migliaia di studenti traditi da un welfare incapace di garantire alcunché. Queste esperienze rivendicano un problema di equità e di decisionalità che non può essere ignorato da chi gestisce la cosa pubblica.

L‘immobile di via Da Buti che oggi abbiamo chiamato in causa, è stato costruito dal comune di Pisa con lo scopo di cederlo all’Azienda Regionale per il Diritto allo Studio Universitario. Questo permetterebbe la creazione di 30 posti alloggio, e così un possibile alleggerimento dell’emergenza a fronte dello scenario emerso dalle graduatorie provvisorie del DSU. In progetto da oltre dieci anni, la sua apertura è stata piú volte promessa e mai mantenuta, rinviata più volte per il blocco dei finanziamenti a causa del patto di stabilità. Si parla ancora di rallentamenti di natura tecnica dei quali l’azienda e il comune devono farsi carico affinché la struttura possa essere al più presto resa fruibile. Situazioni come questa non possono più essere tollerate.

Il nostro territorio ha bisogno di risposte: per questo motivo scenderemo in piazza il 15 novembre, per riappropriarci del reddito che ci viene sottratto e costruire nuove forme di welfare all’altezza dei nostri bisogni e desideri.
Per questo stasera nella residenza studentesca occupata di via Da Buti abbiamo indetto un’assemblea pubblica cittadina di avvicinamento alla giornata del 15.

Le risorse ci sono, sono le scelte politiche a non rispondere ai bisogni sociali.

 

Assemblea d’Ateneo 12.11.13

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TAKE A WALK ON THE WILD SIDE – verso il 12 e il 15 novembre

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She said, hey babe
take a walk on the wild side.
Said, hey honey
take a walk on the wild side.
 Un’università completamente smantellata e un DSU in crisi che lascia senza alloggio 1500 studenti.
Mense  affollate, caro affitti, emergenza abitativa costituiscono ormai la  nitida fotografia della condizione studentesca a Pisa. Nel frattempo nei  quartieri periferici, da Cisanello a S.Ermete, una mobilitazione già in  corso ci parla di centinaia di persone che difendono gli sfratti,  rivendicano il diritto all’abitare e pretendono reddito.
In  tutta Italia la generazione precaria, dagli studenti, ai disoccupati,  ai migranti, ha messo in moto un processo di riappropriazione di reddito  e di spazi e si è riversata in piazza a Roma il 19 ottobre mostrando  tutta la propria determinazione e la propria potenza.
Ricomporre tutti questi differenti segmenti di lotta anche nella nostra città è la sfida che dobbiamo porci.
E’ su questo terreno che si aprono campi di sperimentazione che intrecciano  le vertenze antisfratto a Cisanello, l’esperienza dello spazio popolare di Sant’Ermete, i temi del welfare studentesco: dall’esclusione sempre più sistematica di una buona fetta degli aventi diritto dall’accesso alle borse di studio, alla speculazione edilizia responsabile della sottrazione di spazi abitativi e sociali.
Questi nuovi percorsi di riappropriazione di reddito parlano direttamente a noi. Il  15 novembre vogliamo aprire uno spazio comune di rivendicazioni e di  conflitto che riunisca tutti coloro che in maniera multiforme mettono in campo un  rifiuto generalizzato dell’austerity.
Abbiamo deciso  di riprenderci ogni pezzetto di reddito che ci viene tolto, senza chiedere a nessuno il permesso, senza essere costretti a tollerare chi ogni giorno specula sulle nostre vite.
12 novembre ASSEMBLEA D’ATENEO @polo Carmignani, h. 10
15 novembre GIORNATA DI MOBILITAZIONE CITTADINA
Troviamo la strada.
O apriamone una nuova 
Annibale
#onthewildside #nuovowelfare #dirittoallostudio #casaeredditopertutti
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fossabandaL’azienda  per il diritto allo studio in Toscana si fa vanto di essere una punta  di diamante all’interno del panorama nazionale relativo a questa  sostanziosa fetta di welfare. Il famoso dato che ci viene continuamente  riproposto come un mantra da comunicati ufficiali, dirigenti  dell’azienda e spot pubblicitari è che il diritto allo studio in toscana  ha la peculiarità di riuscire a coprire ancora tutte le richieste di  borse di studio che vengono inoltrate dagli studenti ogni anno. Tenendo  per buono questo dato, è necessario, però, porsi la domanda: Cosa  significa davvero avere una borsa di studio in una città come Pisa? Come  si declina, più in generale, per tutti gli studenti il diritto allo  studio nella nostra università in crisi?
Con  la progressiva dismissione dell’università italiana, negli ultimi anni  abbiamo assistito allo smantellamento della qualità della didattica e  della possibilità di ricerca in ogni singolo dipartimento; di pari  passo, la qualità della vita degli studenti e la stessa possibilità di  accesso agli studi è stata completamente stravolta e ridefinita. Ci  scontriamo quotidianamente un’università sempre più per pochi, dalla  quale viene respinto o per lo meno stigmatizzato chiunque non possa  permettersi autonomamente tutte le spese necessarie.
Le  graduatorie per l’assegnazione dei posti alloggio ai borsisti di  quest’anno ci hanno rivelato una drammatica novità: ben 1500 studenti  pisani aventi diritto all’alloggio non lo riceveranno; in sostanza, i  posti disponibili sono in grado di accogliere solo la metà delle persone  che ne hanno bisogno. Eppure non si tratta che della punta  dell’iceberg, di un segnale di definitivo collasso di un sistema che  subiva già da anni una continua mortificazione: risale al 2012,  per esempio la riforma del sistema delle mense universitarie, che  introduce la fasciazione del costo dei pasti a seconda del reddito. La  mensa è stata così trasformata, di fatto, in un servizio sempre più al  ribasso, che non vale più la pena di essere usato da chi ricade nella  fascia più costosa e che non è più in dovere di garantire alcun tipo di  qualità perchè ad usufruirne solo quasi esclusivamente coloro che, da  borsisti, non devono pagarlo. Una mensa per “poveri”, per quelli che non  possono e non devono lamentarsi della qualità scadente né rivendicarne  una migliore, ma devono, anzi, essere grati per lo straordinario  privilegio che viene loro concesso, quella possibilità di sopravvivenza  mortificante che viene magnanimamente elargita loro.
Già,  essere grati. La gratitudine, in effetti, sembra essere da sempre il  sentimento che è previsto caratterizzi gli studenti nei confronti del  diritto allo studio e di chi lo elargisce. E su questo punto è  necessario fare un passo ulteriore.
Il  collasso del Diritto allo studio, abbiamo detto, va di pari passo con  la dismissione dell’università. Abbiamo anche sempre detto, però, che  qualunque battaglia o movimento che si opponesse alla dismissione del  mondo della formazione, e in particolare dell’università, repentinamente  avvenuto negli ultimi anni, non potesse mai ed in alcun modo essere una  battaglia per la difesa dell’esistente. I movimenti studenteschi si  sono opposti alla dismissione di un sistema universitario che,  comunque,  stava loro già stretto e che da sempre, hanno reputato  insufficiente, in tutte le sue forme: non ultimo il Diritto allo studio.  Cosa vuol dire, infatti, avere garantito il diritto a studiare in  condizioni che mortificano la qualità della propria vita? 
Di cosa bisogna sentirsi grati, quando si riceve l’accesso gratuito ad una mensa che chiunque altro considera immangiabile?
Perchè  da borsisti, bisogna sentirsi “fortunati” se si ricade, per caso, in  quel 50% che otterrà un alloggio garantito, in una casa dello studente  situata completamente fuori dal centro urbano e da qualunque flusso  sociale, come nel caso dell’avanguardistica Praticelli?
Residenza, questa, che rappresenta uno straordinario emblema della tradizionale  inadeguatezza del Diritto allo studio ed, al tempo stesso, un riuscitissimo  caso di sperimentazione del nuovo concetto di welfare universitario – non a caso, è il primo esperimento di project financing, ovvero di  co-gestione in sinergia tra dsu e privati.  Situata  fuori dall’abitato pisano, dicevamo, fornisce tutti i servizi necessari  a fare in modo che i suoi residenti sentano il meno possibile la  necessità di sforzarsi a raggiungere il centro urbano, attentando così pericolosamente, con la loro socialità, al prezioso “decoro”  che l’amministrazione comunale, complice l’università, declina ormai da  anni nei termini di contrapposizione tra centro storico tirato a lucido ad uso e consumo dei  turisti – e degrado apportato dalla “movida” studentesca. Quale migliore soluzione, dunque, che espellere questo corpo estraneo, spingendolo oltre i confini rassicuranti e sorvegliati della città-vetrina? Ai margini, appunto, ci sono case dello studente  nascoste alla vista di chiunque non ne sia inquilino, con rigidi sistemi  di controllo all’ingresso ed all’interno: non si nasconde l’impiego massiccio di  telecamere di “sicurezza”, che spuntano dalle simpatiche pareti colorate a  tema. Questo diventa a Pisa una matricola avente diritto ad una borsa  di studio: un numero di stanza associato ad un colore, che incontra solo  altri numeri di stanza della sua stessa residenza, dalla quale non è  necessario uscire mai: nè per usufruire di una mensa di scarsa  qualità che è, ovviamente, già presente in loco, nè tantomeno per avventurarsi tra i vicoli del centro oltre gli orari di lezione. 
Non  meraviglia, tutto sommato, che moltissimi borsisti, magari dopo il  primo anno, sperino di non risultare immediatamente assegnatari di posto  alloggio, ma, piuttosto, di ricevere per un po’ di mesi un contributo  affitto (contributo che per altro viene erogato solo a patto che lo studente sia in condizione di presentare un contratto d’affitto regolare oppure abbia presentato istanza di regolarizzazione all’agenzia delle entrate, ovvero abbia trovato la forza e il modo di denunciare il proprio padrone) che permetta loro di  vivere all’altezza dei loro desideri e delle loro necessità, ulteriori a  quella della sopravvivenza, sebbene con maggiori difficoltà economiche. Una situazione paradossale, se posta a confronto con l’immagine rosea dipinta dall’Azienda, e una tendenza che parla della volontà di non accettare uno stile di vita normato e imposto dall’alto.
Non  si può non sottolineare – vedi l’esempio Praticelli – il ruolo del DSU  come attore, nella nostra città, di meccanismi di speculazione edilizia  che coinvolge enti pubblici e privati, in una triangolazione che vede  agli altri due vertici il Comune e l’Università. L’indirizzo generale  dei tre enti è questo: alienare gli immobili pubblici, specie quelli che  si trovano al centro della città, in modo da dirigere i flussi dei loro  fruitori – gli studenti e i precari – fuori dal centro urbano, il quale  viene sempre ridimensionato a misura di turista di lusso, mediante la  trasformazione del patrimonio pubblico di cui sopra in alberghi, centri  commerciali e attività private di vario tipo. 
Pensiamo  alla vendita imminente della residenza universitaria Campaldino, in via  di dismissione, e delle proprietà del DSU nella centralissima Via  Dell’occhio, a favore di aziende private che, con l’acquisto, si  accaparreranno anche l’appalto per la costruzione della residenza  S.Cataldo.
Una  grossa partita di giro si sta giocando, in questi anni, sulla  dismissione dell’ospedale Santa Chiara, che ospitava anche la Scuola  Medica (ora migrata a Cisanello, con ingenti investimenti economici da  parte dell’Università, mediante fondi provenienti sempre dalla vendita  di buona parte del patrimonio immobiliare) e che sarà trasformato, da  privati, per andare incontro alle esigenze del turismo di lusso attratto  dalla vicina Piazza dei Miracoli.
Straordinario  il ruolo del Comune di Pisa in queste speculazioni, dalla tristemente  famosa “Mattonaia” al suo recentissimo ruolo nella partita sull’albergo  comunale “Santa Croce in Fossabanda”: una proprietà che, ristrutturata con fondi comunali, potrebbe essere destinata ad uso abitativo, (per  esempio utilizzandola come studentato fino alla fine dei lavori per le  nuove residenze) e che invece verrà venduta a Normale e S.Anna  che ne faranno una (ulteriore) foresteria per visiting professors. Ciò perché, come ha recentemente ricordato lo stesso sindaco, trasformare S.Croce in Fossabanda in alloggio studentesco provocherebbe una svalutazione dello stabile nel mercato immobiliare.
Allo smantellamento del welfare studentesco e al piano complessivo di alienazione messo in campo da Università, Comune e Azienda per il diritto allo studio non possiamo che contrapporci provando a mettere in campo i nostri corpi e le nostre forze per costruire un nuovo modello di welfare che parta dalle esperienze di riappropriazione e autogestione degli spazi. Le esperienze di occupazione di studentati in Italia e a Pisa incarnano realmente il cosiddetto “diritto alla città”; nella misura in cui non soltanto restituiscono alla città spazi abbandonati o mantenuti volutamente vuoti ai fini della speculaizone edilizia, ma mettono in pratica e realizzano direttamente un modo nuovo e diverso di vivere ed abitare assieme: svincolato da un opprimente obbligo di forzata gratitudine, finalmente all’altezza dei nostri desideri.
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Assemblea di gestione – Venerdì 8 Novembre 18:00

Che cos’ è eXploit?

Una domanda semplice, con una risposta anch’essa semplice anche se non immediata. Ci si può chiedere cosa succeda dentro eXploit, chi lo gestisca o che funzione possa avere per chi lo frequenta. Per rispondere partiamo dai motivi per cui abbiamo deciso di riappropriarci dell’aula AM-2. Come già scritto in altri pezzi e comunicati, con questa occupazione abbiamo voluto proporre e sperimentare una nuova modalità di gestione degli spazi comuni dell’Università, ponendoci la grande sfida di far funzionare uno spazio aperto direttamente gestito dalla comunità che lo vive. Dopo quasi sette mesi di autogestione possiamo dire che l’esperimento è pienamente riuscito.

Ad oggi l’ aula eXploit è stata aperta tutti i giorni (comprendendo agosto) ed è stata utilizzata da un numero sempre crescente di studenti fino ad avere anche difficoltà nell’ospitare tutte le persone che ne avessero bisogno. Soprattutto nei momenti di chiusura del polo Fibonacci eXploit è un’importante “risorsa”/punto di riferimento per gli studenti non solo dei corsi di laurea scientifici ma di tutto l’ Ateneo, rendendo così questo spazio ricco di un ibridazione dei saperi che raramente le aule studio dei dipartimenti possono offrire.

In questo periodo si sono svolti nell’aula diversi tipi di eventi, dai cineforum a presentazioni di libri o dibattiti fino ai corsi universitari. La partecipazione studentesca non si è limitata a quella di semplici utenti ma anche alla pulizia, alla gestione logistica e alla creazione degli eventi che hanno animato l’aula.

Crediamo che un progetto come quest’ aula possa sfruttare tutte le sue potenzialità solo grazie alla condivisione dei problemi quotidiani che ognuno di noi affronta durante la giornata e delle soluzioni che ciascuno trova per affrontarli, in particolare in questo delicato momento di crisi globale.

E’ per questo che vogliamo lanciare un’assemblea aperta a chiunque sia interessato alla gestione dello spazio, un’assemblea che si occupi di proporre e gestire attività da svolgersi dentro eXploit, dall’aperitivo sociale, al torneo di scacchi, ai gruppi di autoformazione su questioni attuali interessanti da analizzare insieme.

Invitiamo quindi tutti e tutte ad un incontro pubblico di confronto e discussione dal quale partire per costruire una “assemblea di gestione” di eXploit, venerdì 8 novembre alle 18 nell’aula AM-1.

Gli studenti e le studentesse di eXploit.

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agoràThe relationship between movements and the Internet is in continuous mutation since the rise of the latter. New places of aggregation, sociality and conflict are always built by social organizations in real life, and since the Internet has become an important and diffuse mean of communication, this tendency has affirmed also in this new field. We would like to consider this phenomenon and analyze it in some of its aspects, beginning with some considerations about the different possibilities we have while using the Internet for social purposes.

The traditional purpose for which movements use the Net is to create counter-information and idea-exchanging points. This of course eased and helped the spreading of social fights during the years, and induced a research for still new and more efficient ways to take advantage of the net itself. Recently we assisted to a further step in this direction, that is the use of services found on the Internet to enhace the real-life form of conflicts, those which take place on the streets and the squares. Experiences like this took place in Spain during 15M, when Twitter and other social networks had an important role in the organzation and promulgation of the event, and again in Turkey, where the position of the police forces during the clashes in various cities was pointed out on GoogleMaps in real time. In Italy a similar event occured during the national manifestation of October 19th: while thousands of people gathered in Rome to protest against the austerity of the governement, physically assaulting the ministries of economy and infrastructures, a group of hackers attacked their websites, blocking and defacing them.This cooperation brought the interaction between the hacktivism and the activism to a different level, evolving from the former situation, where the contribute given from the hacker community was to take down, deface and leaking websites important for the institution in ordinary days, usually unlinked from protests called from the movements.

These examples show a new way to act inside the Web, and indicate the offensive potential of merging real and virtual acts of contrast. So we can start thinking of the Internet as another fighting ground against the Capital (space/place of conflict?). Just as social movements perform actions that consist in blocking streets, stations or offices, we can block directly the physical structure used by nations or companies to mantain their power and to organize themselves. For instance, an attack to the servers that administrate the transportation in a given place can cause much more damage compared to the same act made by a group of people. Of course this kind of action requires some specific abilities, but its advantages are clear, such as avoiding physical fight, and the more difficult legal persecution of those who performed the hack. There are many other circumstances where this concept is applicable since all the mechanisms that regulate the production and the exchange of money operate using the Internet. Another factor that made us consider the possibility of such a collaboration between these two ways of strengthening social activism,  is the change occuring in the hacker world. The hacktivism phenomenon  is another way to give a political and social feature to hacking acts,  giving up the usual tendency of hackers to act more individually and to  strike tars not always related to a real fight. The best example of this is the Anonymous organization whose characteristics are the ability to reach many people exploiting the Internet and the application of their computer skills to achieve collective victories over the system.

Although the social networks may help movements in the task of the diffusion of social instances, we have to keep in mind that the Internet is not a neutral space. Millions of people use such services constantly and in doing so they produce a huge amount of data about personal preferences, trends, movements of people and money. Also if the majority of those services are usable for free, the data are used by the big companies of the Web to improve the services, or to earn selling them. So the collective production is exploited to make profit, it no longer belongs to the community. This kind of abuse does not affect just the single user, it hits a very large number of people and the whole common creation loses its power, being controlled, censored and capitalized on.

Our aim is to examine this mechanism and find some form of solution, as well as asking the whole community if there are ways unknown to us to bypass the problem. A good option is to start using alternative forms of social networks, that are made so that contents shared by their users do not become property of the same social network’s owners or developers. Another solution could be to communicate and share with each other using methods that allow secure exchange of informations, like cryptography protocols. This is also a useful weapon against the constant control we are all normally subjected to, and can be very helpful for social movements to organize themselves.

Social control is a very vast problem always present on the Internet in various forms, and in Pisa we started to think about it, understand its implications and see how we can avoid it. In our experience we found some good technical ways to do so; one of them is a secure decentralized communication platform named Retroshare. It consists in a software that allows its user to chat, share files, have video-chat, mail each other and post on forums, all this while being protected by a PGP key algorithm. PGP (pretty good privacy) is a system based on cryptography where the user has a public and a private key: the first serves for others as instructions to build a “padlock” to secure the data they want to send, and the second is a personal key one used to open the “padlocks” protecting incoming data. In this way only two individuals can know the content of what they’re exchanging: the sender and the receiver; and even if the data are intercepted, they are encrypted and so not readable by anyone else.

Another consideration we made in our analysis of the world wide web, and it’s linked to the topic of the control, concerning its physical structure. All the connections we have access to are possible because of a very large and complex system made of cables, servers, antennas and optic fibers. Every time one visits a website a signal departs from his computer and travels through all these steps until it reaches the server that hosts that website, and the same goes for the other services available on the Internet. So the control on the structure implies the control on the data. Since all the physical components of the Net belong to agencies, companies or institutions, it is impossible to avoid control and censorship, even using non-mainstream media.

In Pisa, the group eigenLab noticed this criticality, and reacted by constructing an alternative physical system to communicate, using basically the same technology, but refusing to take the same principles and laws that govern today’s Internet.

Initiatives like this are already a reality in other parts of Italy and Europe. This project, named eigenNet, consists in a mesh net – that is a network which nodes are all on the same level, differently from the main structure of the Internet. While in the pyramidal arrangement the traffic goes from central servers, owned by the big companies, from one’s PC, in eigenNet the transmission of signals is managed by the antennas and the servers, provided by eigenLab, with equal priority and importance between them. The revolutionary feature of this kind of net is that it expands together with the community it serves. It has started by eigenLab but now it has spread among private citizens along with the ideas that lead to its birth. The role of the group of people sustaining the mesh is to spread the awareness about what happens while one’s connected to the Web and underline what social and political consequences it leads to. In this way more and more people will get in touch with the philosophy of peer-to-peer open network, the community will grow and the net itself will improve, due to increasing contributions of community members such as internet bandwith sharing, new services or technical support. EigenNet is free of control, censorship and restrictions due to its own structure, as there is no surveillance on what its users do. It is also open to everyone who need it (one can use the wireless signal), also if they are not really part of the community. An important fact is that eigenLab has developed this system using open and free software (the one that effectively let the antennas communicate) together with the self-production concept (the servers are all recovered from dismissed hardware) so that this kind of net is easily repeatable by everyone. We want to emphasize the good results we experienced during this process, and to propose this model of cooperation as a way to connect and improve social movements, increasing their insight in the technical and theoretical aspects of the net.

eigenLab
Exploit
more info @ http://99agora.net/

 

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Verso Agorà 99 – [eng] Contributo al workshop UNIVERSITY: EDUCATION, RESEARCH AND PRECARITY

564111_535075476574186_614672531_nDuring the last two years, Italian universities have gone through a process of reform – what is known as “Gelmini reform”.

The  point here is not to go through a deep analysis of such reform as a  whole, since it has assumed – and still is assuming – very different  forms depending on the Universities and cities. We also know this has  been a major theme of reflection among italian movements.

We  would like instead to talk about what this process means as far as our  experience in Pisa is concerned, how it influences our presence into the  University and our approach to struggles both inside University and in  our town.

One  major effect of such reform has been the polarization between more  centralized political and technical organs on the one hand, and organs  closer to teaching and students – recall that the so-called “faculties”  (the organs responsible for teaching) have been unified with  “departments” (those responsible for research). This means an overall  restriction of spaces and occasions in which students could directly  take part into decisions regarding their own presence in the  University, such as course syllabuses and academic calendar.

At  the same time we have seen a continuous trend of cuts to funding for  teaching, research and student welfare such as accommodation, canteens, scholarships.

We  think this well-known overall picture has assumed some deeper, peculiar  features in Pisa. In a town which relies on the Universities for its  own economy and productivity, changing the role and incidence of  students can really mean a complete change in the morphology and  composition of the town itself.

In  Pisa, the dismissal of the public University have been carried on by a  peculiar coalition between the University and the local administration.

First,  the University cannot afford to mantain a number of high-valued  buildings any more, on which the local administration (or even private  investors) is speculating – basically, the hope is to acquire them  underprice and then sell to privates. At the same time, those historical  locations – placed in the city centre – have been substituted by a  series of University structures built at the edge of town. This process  forces students to be spread around the town, preventing the possibility  of meeting and interacting outside the limited time spent following  classes. For the University, this has the advantage to keep under  control possible self-organized experiences through an increasing  fragmentation. For the local administration, pushing students outside  downtown means a more ordered, clean, empty center ready for tourists  and visitors. Actually, this transforms a vital, populated city  into a dead, empty showcase – a terrific (and terrible!) illustration of  what they mean by “security” and “order”. Our security is the presence  of life and bodies, rather than a bunch of security cameras at the  corner of dark and lonely streets.

In  Pisa, we have entire areas, up to a few years ago populated by dozen of  students, full of bars and shops, that are nowadays empty and  neglected.

Besides  this intimate connection between dismission of the University, property  speculation, and the imposition of a strict control over student  presence in town,  we believe that is worth to spend a word on how  different mechanisms are operating inside the University itself.

Faculties  of Humanities underwent a simpler, more straight dismission: less  courses, badly organized and lacking of proper information, are by now  every-day experience. This corresponds to a restricted availability of  research and staff position inside the University, as well as an  increasing difficulty to find a proper job outside.

Faculties  of Science are a different story. Subjects like Physics, Engineering, Economics, fit better the need of markets for the kind of working force they furnish. So here a complete dismission would not be so convenient. The strategy is then different.

We assist to a massive campaign promoting what they call “merit” and “promotion of excellence”.  Let us spend a word on this.

We  believe that learning is a complex and non linear process. Above all,  let us stress that it is a collective experience – we learn and grow if  we are stimulated by discussion, knowledge sharing , if we are exposed  to errors we can correct, if deviations and accidents can occurr and be  faced. Knowledge is part of what we call “commonwealth”, and so are  “excellence” and “merit” – there exist no excellence without  condivision, excellence is not the individualistic experience of a  student forced to work and produce alone, but rather it’s a collective  experience.

As  such, it doesn’t make any sense to decline the concept of “merit” in a  competitive fashion, as if one were “excellent” not if he/she does well,  but if he/she did better than someone else.

Instead, the campaign on merit serves the goal of a depletion of the standard, broadly-accessible University. Within a system that invests in teaching, welfare, scholarhsips based on income, those who couldn’t afford to study and live away from home could find their way. Quite on the contrary, an ideologic and competitive approach to merit allows to legitimate a higly selective mechanism, through which resources are put into very few, exclusive schools or faculties that are accessible to few and few people. In most cases, this lead those who come from upper-class, well-educated families to be favourite with respect to those who rely on public education only, which is becoming increasingly poor. We believe this to be part of a process in which a restricted, class-selected elite is well educated within the logic of merit, competition and productivity to become the future source of managers and governors, while the rest serves as a base of lower-skill manpower, excluded from decision-making processs at any level, more espoused to exploitation and restriction of rights. In this sense, the University has become fully embedded in a more general process of evolution of modern capitalism, which tends to evolve in the direction of an effective extorsion of skills and life-time starting from every-day life. The recent reforms are a net step in this direction.

This overall picture forces movements that are present inside Universities to update their approach.

First, the connection between re-organization of Universities and an attack to the role and presence of students in town – mainly on the side of welfare-, as well as the cuts to lodging and increasing prices for rents, leads us to consider any claim for income and welfare no more as a theme complementary to our presence inside Universities, but rather as something that is fully part of our analysis and perspectives. Hence, the theme of occupying houses should assume (and in fact has) a leading role in Italy, and has seen a renovated connection between  workers, unemployed, migrants and students, as the great demonstration of October 19th in Rome has witnessed.

Second, we wish to emphasize that a strong and well-posed attack to the theme of “merit” and to the general abandon of a broadly accessible University has to find forms that fit the current situation.

We don’t believe in a generic quest for “more resources” or in simple complaints about the situation, either posed inside representative organs or claimed from outside with stronger  demonstrations of discontent (that by the way are welcome, if carried on in a clever way). We neither have some more reforms to oppose, since the last one is already effective. We rather think that we have to challenge the University on its own territory with a direct subtraction of spaces to negligence and speculation. This means that of course occupations play a central role in our activities both inside and outside Universities. This is what we have recently done in Pisa with the occupation of some unused spaces inside the Department of Mathematics.

But this is not the end of the story – to have physical space is not enough. By “attack” to the concept of merit we mean to fill our spaces with activities that realise in fact what we have just said about the meaning of this word. We need to build experiences that act against the blind exploitation of resources, bodies and brains which governs our lifes – that are able to affect our every-day experience inside Universities. This practically means to give to students physical space to meet, talk, study or simply spend time together, against the logic that pretends to separate some few “excellences” from other students, and according to which such excellence would be to shut up and remember what an old professor has to say to you well enough to vomit it back during the final examination. The same concept of excellence that pushes people not to grow together in a collective path, but to step on each other corpses to reach the top.

Against this we construct moments of debate and book presentations, we offer people a space free of control and, above all, we are able to show a concrete alternative inside the University and to plan here what we wish will become a larger programme of occupations in town.

One final argument we wish to mention is self-education, which is also a major task of ourselves. In the framework of this polarization between excellence and a general dismissal of public University, self-organized processes of learning assume a crucial role against the fragmentaiton and exclusion of students from decisional processes. In this sense, this has become much more than a “quest for independence” in people’s studies, as well as more than a way to attack the system of credits of the Bologna process. This is the actual way in which excellence is produced. Since knowlege is “commonwealth”, than there can’t exist any excellence in a single person. Excellence is collective, it can only be. Let’s fight to achieve ours.

 

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Considerazioni sul 19 ottobre ed oltre…

er corteo

La giornata di mobilitazione del 19 Ottobre ha saputo esprimere radicalità, determinazione e partecipazione tali da imporsi come punto di partenza per una riflessione stringente e necessaria per tutti. I numeri straordinari dei presenti in piazza, già ampiamente e giustamente sottolineati fin dalle prime ore del corteo, erano imprevisti ed imprevedibili.

Le strade di roma sono tornate a riempirsi, finalmente, a due anni di distanza dall’ultima partecipata ma alquanto controversa manifestazione nazionale.
Chiusi i conti con questo passato ingombrante, circa 70 000 persone hanno attraversato le strade della capitale scandendo in coro: “Roma libera”.
In effetti, una grossa componente della piazza era proprio quella Roma che riapre spazi di libertà, che rivendica il diritto alla città ogni giorno. Parliamo, innanzi tutto, dei movimenti di lotta per l’abitare, con i migranti e i precari che animano le numerosissime occupazioni della capitale e resistono alla crisi mediante pratiche di riappropriazione.

É ragionevole ed entusiasmante pensare, a questo punto, che questo desiderio diffuso di riprendere parola non riguardasse la sola città di Roma, ma potesse essere moltiplicato. La partecipazione dal resto d’Italia, infatti, è stata relativamente esigua, rispetto alla potenza espressa dal corteo romano. Questo ha sicuramente a che fare con le difficoltà logistiche (il consueto rifiuto che Trenitalia oppone alla richiesta di treni a prezzi agevolati) e con la campagna di terrorismo mediatico che è stata deliberatamente messa in campo nelle settimane di avvicinamento per disincentivare la partecipazione.

Non nascondiamo le perplessità che abbiamo nutrito nelle settimane precedenti il 19 in merito alla costruzione della giornata. Provando ad andare oltre i limiti dei contenitori politici, crediamo che la buona riuscita della manifestazione evidenzi un desiderio di partecipazione forte e determinato. La costruzione di questa giornata ha, infatti, coinvolto un numero ampio e variegato di soggetti sociali e politici, che hanno scelto di investire energie e di essere presenti in piazza.

Noi abbiamo deciso di essere tra questi, di scendere in piazza, nonostante le contraddizioni, insieme a realtà le cui lotte sono, da sempre, anche le nostre: il diritto alla casa, la difesa dei territori, il rifiuto dell’austerity.

Sono queste le rivendicazioni forti e radicali che ci appartengono e che consideriamo priorità necessarie di qualunque agenda politica possano darsi i movimenti sociali nella crisi: è incolmabile, dobbiamo dirlo, la distanza che ci separa da posizioni politiche arretrate e difensive, come quelle che hanno dato vita alla giornata del 12 Ottobre.
Ci interessano poco e contrapposizioni sterili tra le date, e molto, invece, i contenuti e gli spunti d’analisi che vi rintracciamo.
La giornata del 12 Ottobre, contrariamente ai buoni auspici e al favore accordato da una considerevole parte dei media, è stata clamorosamente disertata, raggiungendo un numero di presenze sorprendentemente esiguo. Certo, è innanzi tutto evidente che, nell’Europa della crisi e dei diktat della Troika, difendere la Costituzione Italiana (che, tra l’altro, impone il pareggio di bilancio) appare quantomeno anacronistico. E che non possa incarnare una priorità per chi vive nelle lotte reali, come sono tutte quelle contro la crisi, non ci stupisce più di tanto.

Ma è necessario fare un passo in più: la piazza del 12 ottobre, soprattutto se vista accanto a quelle del 18 e 19, ci racconta anche il fallimento di una (ennesima) ipotesi di ri – assemblaggio, posticcio e fuori tempo massimo, di una certa sinistra politico/intellettuale – o quel che ne rimane.
La stessa sinistra che ha mostrato la sua totale incapacità di prendere parola sui temi messi sul piatto dalla manifestazione di sabato scorso, che segnano reali terreni di conflitto di molti e molte; schivata, grazie alla straordinaria lucidità della piazza, la sterile contrapposizione tra violenti e non violenti e l’angosciante carrozzone mediatico che agita lo spettro del nuovo terrorismo, nessuno, dal partito di Repubblica alla sinistra più o meno istituzionale, è stato in grado di esprimersi nel merito della giornata; tutti hanno dimostrato di essere completamente privi di strumenti di lettura per questa realtà vivace e multiforme, radicale e straordinariamente produttiva che è tornata a riprendersi le strade e continua resistere alla crisi, guardando all’Europa come orizzonte minimo delle proprie lotte.

Ed è verso l’Europa che vogliamo rilanciare, dalle piazze di Roma invase.

L’Europa delle banche, certo, quelle che ci impongono i diktat dell’austerity, tradotti, sulle nostre vite, in politiche scellerate dai Ministeri (Economia e Welfare) sotto i quali siamo arrivati in tanti, sabato scorso.

Un’Europa dai confini labili e complessi, che guarda al Mediterraneo e ai Sud, che viene attraversata da flussi continui di persone in movimento, che rivendicano diritti e si riprendono spazi di vita.

Un’Europa che ci suggerisce modalità politiche nuove, forme organizzative partecipate adatte a trasportare su un terreno transnazionale le lotte comuni contro l’austerity. Forme che dobbiamo iniziare ad immaginare e a sperimentare sui territori, se vogliamo superare la rigidità della competizione tra gruppi, che, nella costruzione del corteo del 19, si è rivelata tanto pericolosa ed insufficiente quanto immediatamente scavalcata da desideri e rivendicazioni estremamente più sprovincializzati.

Con questo sguardo e questa prospettiva parteciperemo al secondo Meeting euromediterraneo Agora99, che si terrà a Roma ai primi di Novembre.

Con l’interesse ad andare sempre oltre il singolo evento, ad incrociare realtà e conflitti che sanno radicarsi nei territori; sulla base del comune linguaggio di chi si oppone giorno per giorno alla crisi e reclama reddito, democrazia e diritti, nelle molteplici forme che caratterizzano metropoli, luoghi di formazione e di lavoro, periferie.

 

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Il 19 ottobre e quello che viene dopo

di DinamoPress

La giornata del 19 ottobre, letta in combinazione con lo sciopero generale dei sindacati di base del 18, lascia un segno importante, da cui occorre partire per avanzare domande e proposte nuove nel e per il movimento.

Due giorni di mobilitazioni, imponenti nei numeri, significative nella radicalità. E tutto questo nonostante la fase, qualificata più che mai da un’offensiva padronale, quella propria della gestione neoliberale della crisi economica, tutt’altro che tenera, o in affanno.

Per chi, come noi, ha deciso di raccogliere produttivamente la sfida del 19, lanciata dalla rete Abitare nella crisi, e ha contribuito, anche nei giorni precedenti, alla sua riuscita, un dato più degli altri ha positivamente sorpreso: la robustezza della partecipazione. 70.000 persone hanno attraversato la città, fin sotto ai ministeri (Economia e Infrastrutture), responsabili di sottrarre risorse all’abitare e al welfare per dirottarli verso le banche, nonostante fosse diffusa la percezione, anche e soprattutto a causa dell’aggressione mediatica delle scorse settimane, che si sarebbe trattato di una manifestazione “complicata”. A indicare che, indipendentemente dai contenitori politici e dalle retoriche roboanti, c’è una domanda assai ampia di partecipazione radicale, un desiderio potente, fino in fondo esito della precarietà che marchia la pelle, di esprimere, anche praticamente, la propria indignazione. Doveva essere una sollevazione, nei fatti è stata una grande e importante manifestazione conflittuale. È stato anche conquistato un tavolo di trattativa sulle questioni abitative con il Ministro delle infrastrutture e con diversi sindaci. In questo senso la descrizione mainstream, delusa nel non trovare la tanto attesa “guerriglia”, sarebbe patetica, se non fosse pericolosamente liberticida e forcaiola.

Roma, poi, ha fatto la differenza; da fuori, infatti, visto il consueto blocco della mobilità di Trenitalia, la partecipazione è stata limitata in rapporto alle dimensioni della piazza. La nostra metropoli si dimostra un laboratorio politico effervescente, animato da decine di esperienze di occupazione e autogestione, abitative, sociali e culturali, ma anche da una consistente e radicata iniziativa, in qualche modo unitaria, del sindacalismo di base. Un’anomalia che, senza equivoci o incertezze, si conferma e si rinnova. Anche lo spezzone da noi promosso e organizzato insieme ad altri, e segnato dai vessilli dell’Europa pirata, si è distinto per la ricchezza, la qualità e la partecipazione di migliaia di studenti e precari.

Oltre i numeri, la composizione. Innanzitutto la prova di forza, straordinaria, del movimento di lotta per l’abitare: decine di migliaia di senza casa e occupanti, in prevalenza migranti, hanno aperto il corteo e definito il tratto più qualificante della giornata. I soggetti più colpiti dalla crisi e dalla sua gestione hanno sfilato con la determinazione di chi non si arrende all’ineluttabile, ma qui e ora, attraverso la riappropriazione, impone nuovo welfare, esercitando il proprio diritto alla città. Da anni, decenni, Roma è la metropoli in cui più estesa è la lotta per la casa, mai come questa volta, però, i numeri della piazza sono stati così significativi.

Assieme ai movimenti per il diritto all’abitare, una variegata, e anche in questo caso mai tanto robusta, presenza di gruppi politici e reti sociali metropolitane, dai centri sociali agli studenti. La scena generazionale, precaria e senza futuro, che pur avendo negli ultimi anni (dall’Onda in poi, per intenderci) segnato l’intensità dei movimenti, fatica a tradurre la potenza evidente nelle piazze, anche e soprattutto in quella del 19, in radicato contro-potere nei luoghi di lavoro. I numeri di sabato scorso, e la massiccia partecipazione di precari dei servizi e del commercio alla manifestazione sindacale del 18 ottobre, fanno davvero ben sperare.

Doverosa, procedendo con l’analisi, la comparazione tra la piazza del 19 e quella del 12, alla quale, come chiarito con il nostro ultimo editoriale, avevamo deciso di non aderire. Una manifestazione enorme e radicale, quella di sabato scorso, nonostante gli allarmi e il maltrattamento mediatico. Una manifestazione arretrata nei contenuti, in alcuni casi ostile ai movimenti (pensiamo alla presenza di Travaglio che, in consonanza con Grillo e i cinque stelle, si batte contro l’amnistia… vergogna, occorre gridare!), e poco partecipata, quella del 12, nonostante il sostegno di buona parte della stampa, oltre che di ciò che resta della sinistra politica. La comparazione è utile, non tanto a consolidare rancori, anzi, quanto a promuovere con forza la riflessione sulla fase in cui siamo immersi: è possibile una posizione politica “debole” (cosa vuol dire difendere la Costituzione che impone il pareggio di bilancio? Come si può chiedere l’applicazione della Costituzione agli stessi partiti che la distruggono?) nel momento in cui, senza l’eccessiva mediazione dei tecnici, PD e CGIL gestiscono la crisi per conto della Troika?

Nel bilancio positivo della giornata, meglio, della settimana di mobilitazione, segnaliamo due domande, questioni che poniamo a noi stessi e al movimento tutto. In primo luogo l’Europa. Ci sembra necessario, e su questo insistiamo da tempo (soprattutto praticamente), trascinare oltre i confini nazionali il conflitto anti-austerity. Assumere fino in fondo questa necessità, significa costruire uno spazio comune di movimento e reti sociali di scopo, per un verso da subito transnazionali nell’estensione, per l’altro capaci di adottare nuove grammatiche della partecipazione e della decisione politica, distanti anni luce dalla competizione tra gruppi che spesso va per la maggiore in Italia. Il secondo meeting euromediterraneo Agorà99, che quest’anno si svolgerà a Roma, può essere un’occasione importante per andare in questa direzione. In secondo luogo il radicamento e la continuità. In un autunno fin ora tutt’altro che bollente, il 18 e 19 aprono strade interessanti, da percorrere con passione. Non rinviabile, in questo senso, il consolidamento di esperienze pratiche che sappiano dislocare nei luoghi di lavoro e della formazione, nelle metropoli, il conflitto che nei grandi eventi di piazza sa fare la sua comparsa. La riappropriazione sul terreno abitativo è un pezzo, l’offensiva nella scena del lavoro precario e attorno alla questione del reddito di base è il nodo da affrontare. Così la sollevazione generale può dismettere i panni dell’evocazione e divenire processo sociale.

Con attenzione a queste domande, consegniamo al dibattito pubblico il nostro bilancio del 19 ottobre, le ipotesi di ricerca politica da fare nei mesi a venire.

In conclusione, come purtroppo ci troviamo a fare sempre più spesso al termine dei cortei, chiediamo con determinazione l’immediata liberazione di tutte le compagne e i compagni fermati durante la manifestazione e per cui nei prossimi giorni invitiamo a mobilitarsi in occasione dell’udienza di convalida dell’arresto.

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Noi sfigati dell’ex facoltà di lettere

Dipartimenti nati morti.
La ridipartimentazione post riforma Gelmini ha cambiato completamente la morfologia dell’Università di Pisa tutta, ma non tutti i suoi settori ne sono usciti stravolti allo stesso modo.
Ci limitiamo alla situazione della nostra ex facoltà, che di certo è una di quelle che ha risentito maggiormente degli effetti della riforma.
Per essere onesti, diciamoci pure che la facoltà di Lettere non se la passava troppo bene nemmeno prima, e che nessuno di noi sente particolare nostalgia per la vecchia facoltà in se stessa. Non possiamo però fare a meno di notare che a una struttura in forte crisi ne sono state sostituite altre nate già morte. Frequentiamo le aule dei neonati dipartimenti con la netta sensazione che questi ultimi non abbiano mai visto la luce: per la quantità infima di finanziamenti che ricevono e per la dequalificazione radicale dei corsi di laurea che ad essi afferiscono, sembrano solamente tentare di sopravvivere a se stessi… “fino a esaurimento scorte”, ovvero fino a quando ci sarà ancora qualche povero disgraziato che troverà un senso possibile nell’iscriversi a Storia, a Filosofia, ad Antichistica (ANTICHISTICA!).
Non esiste più una programmazione didattica sensata, buona parte dei corsi un tempo attivi sono caduti nel dimenticatoio (non c’è nessun docente che possa tenerli, tanto meno il dipartimento può assumerne di nuovi), la possibilità reale di contatti fruttuosi tra quelle che un tempo erano facoltà separate – lingue e lettere – non viene sfruttata, ma ignorata con cura. Resistono, eroicamente e stoicamente, gli stessi vecchi corsi di sempre, tenuti dagli stessi vecchi docenti di sempre – magari già in pensione, ma sempre generosi nell’offrire docenza gratuita per mantenere alta la già malmessa fama dei propri dipartimenti.
Quindi: ridotta drasticamente la qualità della didattica, sempre meno e sempre troppo pochi gli spazi per svolgerla. Così si fa lezione seduti a terra in 40 in un’aula per 20 persone e si rincorrono i corsi sovrapposti uno all’altro. Tanto alla fine hai scelto di studiare una cosa inutile, se non ti è permesso di seguire tutti e tre i corsi che devi seguire questo semestre va bene lo stesso (tanto lo sapevi già che non sarebbe servito a niente).
Il caso dell’appello di dicembre
Negli ultimi mesi dello scorso anno accademico entrambi i dipartimenti dell’ex facoltà di Lettere hanno deciso di eliminare l’appello di dicembre. Perché? OMISSIS. Mentre nel dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica non si è potuto che prendere atto del fatto che avremo un appello in meno (con tutti i problemi che questo comporta), nel dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere la soppressione dell’appello è stata aspramente combattuta con una mobilitazione a luglio inoltrato che tuttavia non ha ottenuto i risultati sperati. Per essere più chiari: esplode il caso “appello di dicembre”, gli studenti si mobilitano e decidono di entrare nell’aula in cui si svolge la seduta del consiglio di dipartimento che stava discutendo la questione; il direttore del dipartimento Polsi, evidentemente molto poco avvezzo a simili situazioni, perde le staffe e scioglie il consiglio inveendo contro gli studenti e minacciando di approvare la delibera con provvedimento d’urgenza, ovvero senza passare dall’organo preposto alla discussione e decisione in merito. Alcuni vecchi baroni, quelli che un tempo governavano la facoltà di Lettere, si mostrano increduli e molto arrabbiati per il comportamento tenuto dal direttore “Noi, nella nostra vecchia facoltà, non l’avremmo mai fatto. Gli studenti vengono prima di tutto!”. Sembra una bella storia invece finisce male. Viene riconvocato un Consiglio di dipartimento soltanto dopo che si è riunito un altro organo, la Giunta di dipartimento, composto da un numero molto ristretto di persone (mentre il Consiglio di Civiltà e Forme del Sapere è tra i più numerosi dell’ateneo, con più di cento membri). In Giunta, miracolosamente, si raggiunge un accordo tra tutti i docenti e al successivo Consiglio di dipartimento la soppressione dell’appello di dicembre viene approvata grazie al voto compatto di tutti i docenti, nonostante il voto compattamente contrario di tutti gli studenti (in minoranza, ovvio).
Come mai tutto ciò? Perché la ridipartimentazione ha significato anche una totale chiusura degli spazi di agibilità politica che in qualche misura ancora resistevano e che anni e anni di mobilitazioni avevano costruito dentro l’Università. Il Consiglio di dipartimento, corrispondente all’ex Consiglio di facoltà, è stato completamente esautorato da ogni funzione politica e non è più in alcun modo un luogo decisionale. Nei casi in cui le decisioni sono realmente importanti, si decide fuori, magari in giunta o magari al bar, tanto poi il dipartimento ratifica.
Il nuovo direttore è un megalomane? Forse. Di fatto, però, gli effetti della ridipartimentazione gli garantiscono degli spazi di “autonomia” e di decisione del tutto arbitraria piuttosto ampi.
Ci riprendiamo tutto: spazi autogestiti e autoformazione
Ci siamo iscritti a corsi di laurea che erano un po’ una condanna a morte (non fosse che per noia, vista l’originalità e l’ampiezza della proposta didattica), abbiamo scelto di rischiare parecchio e non vediamo un futuro radioso di fronte a noi. Va bene, avete ragione. Ma ora che siamo in ballo, balliamo.
Spazi
La ristrutturazione dell’Università è passata anche per la chiusura di molti spazi e la dislocazione dei poli universitari fuori dal centro storico (un esempio per tutti: il Polo Piagge). L’ex Facoltà di Lettere non si è fatta mancare neppure questo. Palazzo Ricci, un tempo storica sede dell’area umanistica, luogo di incontro e di aggregazione, è diventato un polo didattico nel suo significato più grigio: labirinto fatiscente di aule sparpagliate in cui nessuno ormai si ferma più nemmeno un minuto in più dopo la lezione. Tanto che ci stai a fare? In compenso è stato finalmente ristrutturato Palazzo Matteucci, in piazza Torricelli. Un palazzo tutto nuovo, con una bellissima biblioteca chiusa alle 18 e un portiere che se entri un minuto prima della chiusura ti sbatte fuori senza sentire ragioni. E la storica piazza Dante? Anche lì non si vede più anima viva: Scienze Politiche è stata interamente trasferita alle Piagge e La Sapienza chiusa per ragioni tecniche ancora non chiarite da alcuna perizia. Potersi incontrare è diventato difficile, quasi impossibile, vista la frammentazione pulviscolare dell’ Università e la totale assenza, all’interno di quel che ne rimane, di spazi comuni.
Eppure c’è  molto di sottutilizzato o del tutto inutilizzato attorno a Piazza Dante, luoghi che aspettano soltanto che qualcuno li renda nuovamente vivi, aperti, attraversati. Riprendersi gli spazi ed autogestirli significa avere l’ambizione di trasformare un pezzo di città, un pezzo di Università, rifunzionalizzandolo in modo diverso a partire dalle esigenze e dai desideri di chi vive davvero lUniversità e la città. La zona dell’area umanistica dell’Università sta già vivendo la riapertura e la resurrezione di uno spazio: il Teatro Rossi Aperto – aperto proprio di fronte all’ingresso di Palazzo Ricci – ci racconta ormai da più di un anno una storia diversa. Prendiamo appunti su questo virus, perché il contagio potrebbe iniziare da un momento all’altro.
Autoformazione
Vi sarà capitato di dare un’occhiata all’offerta didattica del vostro corso di laurea e scoprire che molto spesso è vecchia di sessant’anni e che “quest’anno fa lo stesso corso dell’anno scorso che comunque è anche quello di due anni fa”.
L’autoformazione è uno strumento con cui negli ultimi anni gli studenti hanno sperimentato una forma nuova e diversa di studiare e di produrre sapere dentro l’Università, in maniera autogestita ed intelligente. I laboratori di autoformazione sono nati dal desiderio di molti studenti di provare a condividere le proprie conoscenze per dare vita a percorsi seminariali di studio collettivo, aiutati da ricercatori, docenti, studiosi, che sapessero rispondere ai loro interessi e che fossero all’altezza delle loro ambizioni.
Percorsi che hanno uno sguardo immediatamente rivolto all’attualità e ai fenomeni che ci circondano, ai processi politici, sociali ed economici con cui ci confrontiamo quotidianamente.
Caratteristica fondamentale di questi percorsi è che essi sono autonomi, nel senso che dal confronto e dalla condivisione nasce la scelta del tema del corso, delle modalità del suo svolgimento, dei contatti cui fare riferimento. Dalla lettura collettiva dei testi nasce la scelta dei materiali da mettere in programma. Inoltre questi percorsi. per la grande risonanza che hanno avuto e per la larga partecipazione che hanno riscosso, sono riusciti a strappare un pezzetto di indipendenza conquistandosi anche il legittimo e meritato “guadagno di cfu”. Quest’ultimo passaggio rientra nelle finalità dei percorsi di autoformazione, nella misura in cui questi nascono da un ragionamento che punta a scardinare dall’interno la logica dei crediti universitari, richiedendo e ottenendo il riconoscimento del valore di percorsi che si strutturano con tempistiche autonome, non rispettando lo standard tot. ore per tot. cfu.
Non è il caso né di aver paura né di sperare, bisogna cercare nuove armi.
(G. Deleuze – La società del controllo)

lettereinagitazionepisa.blogspot.it

exploit.noblogs.org

FB : Lettereinagitazione Pisa
FB: Exploit Pisa
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Biohacker – Venerdì 11 Ottobre 18:00

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Incontro con l’autore Alessandro Delfanti.
Intervengono Salvatore Iaconesi e Oriana Persico – Art is opensource

A seguire apericena.

Biohacker. Scienza aperta e società dell’informazione

Milano: Elèuthera, 2013. Edizione ridotta e aggiornata della versione originale in inglese

L’emergere di nuove forme di scienza aperta sta riconfigurando profondamente le relazioni tra ricerca, società e mercato. Le culture hacker sono infatti uscite dal mondo del software per contaminare altri saperi, in particolare le scienze della vita. È così nata l’inedita figura del biohacker, capace di mettere in discussione la ricerca proprietaria perseguita da «Big Bio» e la sua politica dei brevetti. Le modalità che caratterizzano questa trasformazione non sono però univoche, come mostrano i tre casi esemplari discussi nel libro: quello del biologo Craig Venter, quello della virologa Ilaria Capua e quello dell’artista-hacker Salvatore Iaconesi. E se una tendenza sta evolvendo verso una forma definibile come biocapitalismo, l’altra si muove invece verso una scienza partecipativa basata sulla più ampia condivisione di informazione e conoscenza.

I biohacker sono tra noi. Questo studio appassionante mostra come una nuova generazione di scienziati stia scardinando la ricerca biologica con lo stesso approccio usato un tempo per hackerare i computer. Grazie al loro lavoro, la scienza potrebbe non essere mai più la stessa.

Fred Turner, Stanford University
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Alessandro Delfanti insegna Sociologia dei nuovi media nell’Università di Milano ed è ricercatore presso la McGill University di Montreal.

http://delfanti.org/biohacker-it/
http://www.eleuthera.it/scheda_libro.php?idlib=337#
http://www.artisopensource.net/

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